Foibe: io, figlia di un esule, non le ho mai ignorate

La legge 92 del 30 Marzo 2004 fissa il 10 Febbraio (firma dei trattati di pace di Parigi 10 Febbraio 1947) Giorno del Ricordo una ricorrenza nazionale. Da quel giorno venivano assegnati alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara considerati fino a quel momento territori italiani. Furono 350 mila i fiumani, gli istriani e i dalmati che dal 1945 in poi si riversarono in Italia ed ancora oggi non è ben definito il numero di chi finì nelle foibe, tombe senza nome.

Migliaia di insegnanti, di sacerdoti, di militari furono gettati vivi perché considerati elemento di ostacolo al disegno di conquista del territorio del regime comunista di Tito. Questi eventi sono ancora oggi considerate una delle pagine più oscure della nostra storia.

L’esodo rappresentò una vera fuga causata dalla volontà di snaturare l’italianità che il maresciallo Tito instaurò nella Primavera del 1945. Da Fiume fuggirono 54 mila su 60 mila abitanti, da Pola 32 mila su 34 mila, da Zara da 20 mila su 21 mila, da Capodistria 14 mila su 15 mila.

Soltanto l’esodo degli abitanti di Pola si svolse sotto la protezione inglese con navi italiane. Gli altri istriani, fiumani e dalmati dovettero abbandonare le loro case i loro averi sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi. Coloro che ottenevano il visto per la partenza potevano portare in Italia solo 5 kg di indumenti e cinque mila lire, questi dati sono stati tratti dal testo (Il rumore del Silenzio” di Claudio Schwarzenberg).

Questo fu il tributo pagato dai Giuliani e Dalmati per continuare a rimanere italiani. Giunti in Italia furono dispersi in 109 campi, Sardegna compresa. Circa il 30 per cento fu dirottato in Canada, Stati Uniti, Argentina, Australia e Nuova Zelanda.

Alcuni campi destinati ai profughi, in precedenza erano stati campi di concentramento (San Sabba, Fossoli e Bolzano) circondati da filo spinato, con posto di polizia all’entrata e con servizi, bagni e mensa/cucine in comune. I profughi furono soggetti al coprifuoco e schedati (con impronte digitali in diversi casi) quasi fossero criminali. Di fatto rimasero alla mercé della carità pubblica e ciò sino agli anni ’70.

Ancora oggi all’interno del Porto Vecchio di Trieste, poco distante da piazza Unità d’Italia, si trova il Magazzino 18, situato in area extradoganale. Lì sono contenute le “masserizie” degli esuli, cioè degli italiani che lasciarono le proprie cose. Lì si trovano tonnellate di oggetti di tutti i tipi: piatti, tazze, bicchieri, bricchi, giocattoli, letti, sedie, stoviglie, fotografie, quadri, oggetti di uso quotidiano, cose lasciate dalle persone che scappavano dal regime di terrore che si era instaurato nelle zone in cui vivevano. La vita quotidiana di questi italiani veniva impacchettata e trasportata, con la speranza di poter essere ricostruita, forse con un ritorno nella propria terra. Molti non hanno fatto ritorno al Magazzino 18 forse per non accrescere il dolore di un ricordo devastante, più probabilmente per essersi ricostruiti la vita altrove.

Io stessa sono figlia di un profugo istriano. Mio padre è nato a Pola nel 1932, e poco più che tredicenne è arrivato a milano, per mano di mia nonna, sua mamma, dove ha trovato immediata solidarietà da alcuni parenti. E’ uno dei pochi profughi fortunati, perché, in breve tempo, è riuscito a ricostruirsi la vita stringendo legami, amicizie e più tardi a fare una famiglia. Non ha dovuto transitare in un campo profughi in condizioni di promiscuità come accaduto a molti altri suoi corregionali.

La mia famiglia paterna ha abbandonato quella terra per non avere accettato di sposare una cultura che non le apparteneva. Fin da piccola ho ascoltato i racconti dei miei famigliari, frammenti di vita quotidiana che esprimevano il desiderio di quegli italiani di voler rimanere aggrappati alle proprie tradizioni, al loro credo alla volontà di essere italiani. Diventata adulta mi sono chiesta, perché uno Stato debba promulgare una legge per ricordare una parte della propria storia. E perché le Istituzioni di questo Stato hanno impiegato 75 anni per onorare il comportamento dignitoso e fermo di oltre 350.000 suoi cittadini nel voler riaffermare il propria attaccamento alla patria. Già, patria, un termine caduto in disuso nella cosiddetta società civile e che probabilmente sarebbe pure sparito dal dizionario se non fosse ancora utilizzato da quegli italiani che vestono la divisa delle nostre Forze armate.

Quella parte d’Italia, dimenticata così a lungo, è stata teatro di efferati delitti e pure testimone di una propaganda anti-religiosa che non non ebbe alcuna pietà nel colpire sacerdoti come don Francesco Bonifacio, scomparso nella notte dell’11 Settembre del ’46, sorpreso lungo la strada di casa da quattro guardie popolari, picchiato a morte e presumibilmente infoibato. Il suo corpo non fu ritrovato. La Chiesa, correttamente, lo ha proclamato beato. Con lui altri furono vittime della ferocia titina: il vescovo Antonio Santin aggredito a Capodistria nel ’47, recatosi per partecipare alla festa del patrono della città, San Nazario, ed officiare al sacramento della Cresima, i titini organizzarono una feroce aggressione nei suoi confronti, don Angelo Tarticchio arrestato dai comunisti titini malmenato ed ingiuriato insieme ad altri trenta dei suoi parrocchiani, fu seviziato. Alla riesumazione del suo corpo lo trovarono nudo con una corona di spine conficcata sulla testa, il capitano dei Carabinieri Francesco Casini Comandante della Compagnia di Pola, dopo l’8 Settembre 1943, decise di rimanere in Istria, continuando l’opera di vigilanza e controllo che gli era stata affidata. Persi i contatti con i partigiani slavi, nel Luglio del 1944 con altri 69 militari del suo reparto abbandonò la Caserma di Pola per creare un forte movimento italiano in Istria e collaborare con il IX Corpus titino alla cacciata dei nazisti. Due mesi dopo, però, fu anche lui tradito dai nuovi alleati, sottoposto a un processo farsa e fucilato assieme alla moglie Luciana (archivio storico dell’Arma dei Carabinieri), ai 97 finanzieri deportati dalla caserma di via Campo Marzio e trucidati nella foiba del carso triestino,  la giovane 24enne Norma Cossetto, divenuta simbolo del martirio delle Foibe.

Naturalmente l’elenco potrebbe continuare, ma in un articolo di giornale non è ovviamente possibile rendere conto delle migliaia di vittime, innocenti, causate dalla pulizia etnica dei miliziani comunisti iugoslavi.

Come figlia di un profugo polesano intravedo ancora oggi nelle Istituzioni l’incapacità di creare una coralità d’intenti nel commemorare il “Giorno del Ricordo”. Vengono svolte, in alcuni luoghi, manifestazioni; si ammainano le bandiere a mezz’asta in ricordo dei morti, ma l’impressione che ne traggo è come se si dovesse fare qualcosa perché non facendola ci si potrebbero attirare critiche o imbarazzi. Non avverto un afflato, un sentimento di autentica fratellanza con gli ultimi esuli rimasti. Costoro, ne conosco diversi, vivono ancora le loro memorie in silenzio.

Eppure sono stati vittime di un odio ideologico, etnico e sociale; sono persone che, una certa sinistra, ha bollato come fascisti. Nulla di più mistificante: erano persone non impegnate politicamente che svolgevano professioni o lavori comuni: insegnanti, artigiani, piccoli imprenditori, impiegati pubblici, qualche militare e alcuni preti cattolici. Nonostante l’indifferenza mostrata dalle Istituzioni non si sono mai dimenticati della loro terra.

Spesso ho visto la tristezza negli occhi di mio padre, nel sentire menzionare città come Koper per Capodistria, Rieka per Fiume, Porec per Parenzo Pula per Pola o Split per Spalato, Zadar o Hvar e Zara, Lesin. Oggi sono centri conosciuti dalla maggior parte degli italiani come luoghi di villeggiatura, con nomi non più italiani, ma passeggiando per le vie di quelle località ci si imbatte ancora nei monumenti e in palazzi che sono lì a testimoniare la storia di una civiltà italiana mai sopita.

Il Giorno del Ricordo è impostato su iniziative quasi sempre lasciate all’ opera di associazioni di istriani, fiumani e dalmati sopravvissuti a quei tragici eventi. Sono testimoni che raccontano sé stessi con la speranza che la storia della loro perduta terra non debba essere dimenticata ma che, anzi, diventi memoria collettiva del nostro Paese.

La storia del loro esodo è più verbale che scritta. Il pericolo che essi vogliono scongiurare è che si cancellino i loro sacrifici, le loro rinunce; morti loro tutto finisca nel dimenticatoio.

Più che per loro sarebbe una iattura per le future generazioni di italiani, che sarebbero privati della conoscenza di una parte importante, seppur triste, della loro più recente storia.

Immagine lapide Foiba Basovizza Trieste

Condividi:

Related posts