Per gentile concessione del triestino Silvio Brachetta, teologo, scrittore e membro della Redazione dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, pubblichiamo la sintesi del suo articolo “Non adoperare parole ostili? Il giornalismo addomesticato della post-verità”, estratto da “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa, anno XVII (2022) 1, dal titolo “Il credo mondano di oggi. Un decalogo da confutare”
Dai tempi pre-cristiani la vocazione dello scriba è sempre stata delicata, peculiare e difficile. Ma, dal Novecento ad oggi, lo scrittore è costretto a lavorare nell’epoca in cui, a livello culturale, è contestata l’esistenza stessa di una verità oggettiva, anche in seno alla stampa cattolica. Ad aggravare la situazione, in Italia, s’è imposta l’egemonia culturale di tutto un mondo formatosi sul pensiero di Antonio Gramsci, secondo cui – al di là della rivoluzione armata e politica – la classe dirigente avrebbe dovuto costituire una «direzione intellettuale e morale», per una formazione permanente dei cittadini, in senso socialista.
Si è approdati al concetto di «post-verità» («post-truth»), coniato nel 1992 dal drammaturgo Steve Tesich, secondo il quale i media americani avrebbero dato poco peso ai fatti del Medio Oriente e della prima guerra del Golfo. Il liberal Tesich, in realtà, accusava la gestione repubblicana Bush, ovvero la parte politica avversa alla sua e, anche in seguito, saranno i democratici ad accusare di menzogna gli avversari politici.
Se invece consideriamo la post-verità come la cifra globale del mondo odierno dei media, l’espressione di Tesich è forse la più appropriata. In questo senso Marcello Veneziani ammette l’epoca della post-verità, ma ne indica la causa proprio in quel mondo liberal, anarchico o di sinistra che ha posto la gravità del problema. Fu durante il Sessantotto – scrive Veneziani – e non all’inizio degli anni Novanta, che «nacque la post-verità, cioè la verità a modo mio»: niente più «autorità, natura, merito», ma «tutto è come mi sembra». Forse nacque un po’ prima: nei totalitarismi del Novecento, nelle filosofie illuministe, nelle teologie riformate, nel modernismo cattolico, nella frattura tra fede e ragione.
Veneziani, piuttosto, parla di un paradosso tutto contemporaneo: coloro che, per primi, hanno rifiutato la fondazione metafisica della realtà, sono quelli che ora – con piglio fanatico – si dicono contro la post-verità. Chi ora attacca «la post-verità – filosofi, intellettuali, politici e giornalisti – sono gli stessi che nei loro scritti, nella loro militanza, nella loro professione, hanno sempre respinto ogni verità oggettiva, riconosciuta e universale». La verità, secondo questi seguaci di Gramsci, non è l’adeguamento dell’intelletto alla realtà dei fatti, ma null’altro che «le idee dominanti», ovvero «le idee della classe dominante».
Il Novecento è il secolo in cui i giornalisti si sono formati a quella stessa scuola che ha plasmato la classe politica e i proprietari dei giornali. Sono figure oramai contigue che, oltre a qualche contrasto di facciata, non sanno più esprimere una posizione originale. Il giornalismo, quindi, non è più un quarto potere o un quarto stato, che supervisiona e denuncia gli errori degli altri tre, ma un potere del tutto omogeneo alla politica e alla cultura di massa. Vi sono molteplici eccezioni, ma i cronisti indipendenti subiscono un’incessante vessazione da parte del mainstream, per cui o vengono silenziati o vengono ignorati. È in corso, da decenni, la delegittimazione sistematica di ogni voce che legga i fatti in modo difforme da quello dei media più diffusi. Tra questi, anche diverse testate cattoliche.
Cecità sistematica
È stato completamente disatteso, tra l’altro, il magistero scaturito dal Concilio Vaticano II, che ha indicato, nell’introdurre il concetto di «dialogo», una delle prassi primarie del fedele cattolico e non. Al contrario, il periodo che va dagli anni Sessanta del XX secolo ad oggi è stato caratterizzato dalla crisi dialettica più grave forse dai tempi della Torre di Babele.
Il dibattito è scomparso e sostituito con l’infinita polemica tra visioni contrapposte, che tradisce una povertà intellettiva diffusa e l’incapacità logica (e dunque dialogica) di sostenere una qualunque tesi. I singoli media si sono ridotti a diffusori di affermazioni caotiche, senza la capacità – razionale, linguistica, didattica – di poterle sostenere. L’incapacità dialogica si è tradotta in una serie di atteggiamenti anti-retorici: diffamazione, messa in ridicolo, petulanza, discussionismo inconcludente, astio ad oltranza, disistima, apatia, disinteresse, minaccia. Alla polemica, infatti, segue la rissa.
Il dibattito è ora rimpiazzato dalla crociata ideologica, di cui la più diffusa è quella contro la post-verità, promossa non da chi denuncia la stratificazione di decenni di menzogne, ma dall’alleanza tra i mass media e il potere politico.
Non è il quarto potere a denunciare la post-verità, perché il quarto potere o non esiste o è ridotto al silenzio. Paradossalmente è il mainstream ad arricchire la polemica di nuovi lemmi: fake news, bufale, disinformazione. È una crociata grottesca, promossa da chi ha sempre contestato la verità oggettiva, da chi si è formato nel laicismo ateo o nel cattolicesimo democratico.
Si vedono, dunque, i grandi media accusare di menzogna chi non si adegua alla diffusione e all’interpretazione unica delle notizie. È successo per la questione mediorientale (anni Novanta), per la crisi economica (dal 2008), per le tematiche legate alla vita e alla famiglia (aborto, fivet, omosessualità, eutanasia) e, negli ultimi due anni, accade per via della pandemia da Covid-19.
I grandi media o il potere politico, nella loro accusa, hanno il pretesto di Internet e presentano sempre, come prova, questo sillogismo: la protesta contro il mainstream si è spostata su Internet – Internet è un contenitore di menzogne (fake news) – quindi la protesta è una menzogna (post-verità).
Contro questa interpretazione è intervenuto, a sorpresa, Alessandro Baricco, scrittore formatosi ‘a sinistra’, sul mainstream «La Repubblica». Non sarà forse – scriveva anni fa – che «post-verità è il nome che noi élite diamo alle menzogne quando a raccontarle non siamo noi ma gli altri»? E rincara: «Chi usa la parola post-verità tende a sottolineare come nel mondo del web» le menzogne «abbiano assunto una velocità, una forza e un coefficiente di penetrazione senza precedenti e che questo segnali appunto il passaggio a una nuova epoca».
Baricco espone la «cecità spettacolare» delle élites: «chiunque capirebbe che una bufala al telegiornale quando il web non c’era […] era immensamente più efficace e veloce di una bufala lanciata oggi in rete: oltre tutto era molto più macchinoso smentirla o contrastarla».
Rieducazione dei giornalisti
La post-verità, insomma, non si cela dietro Internet, nonostante vi sia la presenza massiccia di menzogne mescolate a verità. Che il web sia un pretesto, lo si estrapola pure dalla presenza in rete di tutte le più importanti testate del globo, proprio quelle che criticano il giornalismo improvvisato e informatico, fonte di bufale e fake news.
La cosiddetta crisi della carta stampata potrebbe entrarci poco con l’avvento dell’informatica. È più probabile che il lettore avverta in modo nuovo la sproporzione tra quanto legge e la realtà dei fatti. E si rivolge altrove, fosse anche al mondo caotico del web. Il lettore si accorge sì di una post-verità, ma la ritrova quotidianamente nello squallore dei programmi e dei notiziari televisivi e radiofonici o nelle pagine, tutte omologate, dei grandi quotidiani nazionali.
Che il giornalismo sia in forte crisi lo si capisce anche dall’istituzione, tutta italiana, dell’Ordine dei Giornalisti. A cosa dovrebbe servire? In teoria a quello che servono tutti i sindacati o le corporazioni e, cioè, a proteggere la categoria e il singolo da attacchi esterni o leggi ingiuste. Ma così non è.
Nel 2014, ad esempio, è entrato in vigore l’obbligo di formazione dei giornalisti, tenuti a frequentare un certo numero di corsi di aggiornamento. L’Ordine non ha opposto la minima critica al comando governativo. Con obbedienza cieca, la sede centrale e tutte le sedi regionali si sono dotate di un sito web specifico, per un elenco dei corsi da proporre. Ci si sarebbero aspettati dei corsi utili all’apprendimento della professione: come si realizza un giornale, come reperire le fonti, come scrivere un articolo. Nulla di tutto questo.
La gran parte dei titoli dei corsi sono di questo tenore: “La crisi climatica e le nuove politiche energetiche”, “Lo sviluppo sostenibile oltre la pandemia”, “La nuova sfida del giornalismo democratico”, “Manifesto della comunicazione non O_Stile”. Non solo l’Ordine non protegge il singolo da leggi inutili, ma lo costringe all’accettazione ideologica delle proposte formative.
L’Ordine ha persino assecondato il piano della politica, che richiede ai giornalisti di cambiare il modo di parlare. Si tratta del succitato progetto contro le Parole O_Stili, per cui il giornalista è fortemente invitato ad usare un nuovo linguaggio inclusivo, in modo da «scegliere le parole con cura».
Il giornalismo, quello che un tempo fu il quarto potere, deve ora persino cambiare le parole, secondo le indicazioni dei primi tre ed unici poteri. È considerato ostile e offensivo riferirsi ai genitori come maschio e femmina, non indicare un’amicizia omosessuale come famiglia, indicare un uomo transessuale al maschile – e altre cose di questo tipo. In breve, il giornalista iscritto all’Ordine, nel nome dell’empatia e della pace, dovrebbe sempre parlare in modo acritico, dicendo agli altri quello che gli altri vogliono sentirsi dire. Dovrebbe, quindi, rinunciare all’apologetica, alla critica, al dibattito, alla confutazione, che sono gli strumenti base del letterato di ogni epoca.
In tutto questo c’è un tradimento non solo della schiettezza di Émile Zola, ma pure degli insegnamenti di Joseph Pulitzer, che avvertiva: «Una stampa cinica, mercenaria e demagogica, prima o poi, creerà un pubblico ignobile».
Diversa, invece, è la vocazione del giornalista. Scrive Pulitzer nel merito: «Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché sia letto, in modo chiaro perché sia capito, in modo pittoresco perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce».