I cultori del politicamente corretto (alcuni dei quali si sono spinti ad invocare l’ausilio di studiosi di semantica per rafforzare il loro furore ideologico) dovranno presto spiegarci perché ha un sapore vagamente razzista definire cinese l’epidemia di Covid 19.
Che il letale virus si sia sviluppato a Wuhan non ci sono dubbi. Le autorità di Pechino denunciarono all’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) il primo caso di una allora misteriosa polmonite il 31 Dicembre 2019 e chiusero il mercato di animali vivi di Wuhan dal quale ritennero fosse partita l’infezione.
La vera origine del virus e la maniera in cui sarebbe passato da animale a uomo è però ancora un mistero, anche per gli stessi scienziati incaricati di indagare sulle origini della pandemia da Coronavirus.
La missione di cui hanno fatto parte e che, su incarico dell’Oms, s’è recata proprio a Wuhan ha sollevato tanti dubbi sulla sincera volontà delle autorità cinesi di collaborare fino ad identificare il “paziente uno”.
Quelle che fino ad oggi sembravano ombre sul comportamento di Pechino nel denunciare fin dalle prime fasi l’epidemia è oggi un dato acquisito di palese occultamento di dati utili a comprendere la nascita e lo sviluppo del virus.
Acclarata la responsabilità cinese ci chiediamo allora perché l’intero apparato massmediatico, parlando di coronavirus, insista nell’usare termini come “variante inglese”, “variante scozzese”, “variante brasiliana”, “variante sudafricana”, e, più recentemente, addirittura come “variante napoletana” e “variante milanese” (per estensione dal limitrofo comune di Bollate).
Allora, mentre tutte le varianti del morbo hanno diritto di cittadinanza e sono politicamente corrette, scrivere e parlare di “virus cinese” o di “virus di Wuhan” è una bestemmia; peggio, è un’espressione razzista.
Beh, è arrivato il momento di plagiare Grillo e porgere ai tanti cultori del politicamente corretto un cordiale quanto sentito “vaffa…”
(credit immagine: valtellinanews.it)