Monsignor Crepaldi, arcivescovo di Trieste: ripartire, si, ma con fede e ragione

Monsignor Giampaolo Crepaldi Arcivescovo di Trieste nel corso di un incontro a Bologna presso i Padri Domenicani ha tenuto la seguente relazione che offriamo per il suo premiante contenuto ai nostri lettori.

«Vorrei iniziare questo mio breve intervento prendendo spunto dalle parole del titolo che ci è stato indicato: “Ripartire con coraggio e fede”. Nella situazione che tutti abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, la parola “ripartire” è stata utilizzata da molte parti e in vari sensi. Spesso è diventata una parola magica e abusata nello stesso tempo, con la quale nascondere almeno una parte di realtà, in modo che la “ripartenza” avvenga in un senso utile a chi la proclama.

Di appelli alla ripartenza ne abbiamo sentiti molti e non sempre in essi ci siamo riconosciuti perché strumentali. In questa mia conversazione non intendo il termine “ripartire” nei significati che oggi vanno per la maggiore e che sono – come torno a dire – tendenziosi e interessati. Come dobbiamo intendere, allora, questo termine?

Mi aiutano le altre due parole del titolo: coraggio e fede. Il coraggio à una virtù. Platone, nella Repubblica, lo definisce così: “Coraggioso credo noi chiamiamo ciascun individuo quando l’animo suo riesce a salvaguardare, nel dolore e nel piacere, i precetti che la ragione gli dà su quello che è o non è temibile” [Resp., IV, 442 b-c]. Qui Platone ci dice che il coraggio, come ogni virtù, è collegato con la ragione, più precisamente con la ragione pratica, la quale è però una “estensione” della ragione teoretica. San Tommaso afferma che  “la virtù è quella disposizione che rende buono l’uomo che la possiede e l’atto che egli compie” [S. Th., II-II, q. 123, a 1; cfr. S. Th., II-II, q. 47, a 4] per precisare poi che “buono e cattivo si dice in ordine alla ragione” [S. Th., I-II, q. 18, a. 5, resp.].

Allora, la prima leva da cui ripartire è l’uso della ragione, alla quale rimanda la virtù del coraggio. È il titolo di questa conversazione a indicarcelo e io sono pienamente d’accordo con questo suggerimento.

La ragione, però, spesso non ce la fa con le sole sue forze. Ha all’interno una forte spinta perché ogni uomo cerca naturalmente di conoscere, come diceva Aristotele nelle primissime righe dalla sua Metafisica, però comporta anche fatica, come insegnava già Eraclito nel V secolo avanti Cristo dato che – egli diceva –  la “verità ama occultarsi”. Uno dei grandi insegnamenti di Benedetto XVI è stato che la ragione ha bisogno della fede, non per diventare altro da sé, ma per essere fino in fondo ragione.

Questo principio è condiviso da tutti coloro che ammettono la possibilità di una “filosofia cristiana”. Questo perché la fede (cristiana), a sua volta, “non si basa sulla poesia e la politica, queste due grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza … Nel cristianesimo la razionalità è diventata religione” [J. Ratzinger, Fede verità tolleranza, Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 178]. Ecco allora che la ripartenza, oltre che fondarsi sulla ragione deve fondarsi sulla fede. Durante la pandemia abbiamo visto la ragione presentare argomenti di fede e la fede presentare argomenti di ragione, veri o presunti che fossero: così non va.

Ognuna deve rimanere quello che è, ma nella collaborazione reciproca, come dice in un suo famoso passo la Caritas in veritate che riprende altri luoghi analoghi di Benedetto XVI. 

Ho utilizzato le parole del titolo perché proprio su questa linea di virtù, ragione e fede, intendo svolgere queste mie riflessioni sulla ripartenza.

Ripartire dalla coscienza

La ripartenza dovrà prima di tutto fondarsi sulla coscienza. Come dice la Veritatis splendor, la coscienza è “un atto dell’intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora” (n. 33). Dobbiamo realisticamente chiederci se nella attuale situazione politico-sanitaria ci si sia veramente preoccupati di alimentare il giudizio della coscienza personale.

Non intendo esprimere qui valutazioni di parte, ma mi sembra doveroso riconoscere che, dai tentativi di persuasione surrettizia fino alla deformazione dei dati informativi di base, si sia fatto molto per impedire alle coscienze di esprimere un giudizio responsabile.

Spesso le decisioni sono state dettate dall’imitazione, dall’obbligo indiretto, dalla fretta, sulla parola di uno o dell’altro esperto, affidandosi ad una o all’altra delle narrazioni in campo, dentro un mare di informazioni confuse e contraddittorie in cui spesso la coscienza è naufragata. Devo aggiungere, a questo proposito, che anche la Chiesa cattolica avrebbe forse potuto fare di più per fornire gli strumenti per un ragionamento personale, secondo verità e libertà, capace di esaminare con ordine i diversi livelli della posta in gioco. Le coscienze sono state fin troppo bombardate da molti slogan, e sono state spinte a valutare in fretta per abbreviare i tempi, che invece, proprio per questo, si sono allungati.

Quello che sto sottolineando ha una proiezione a lungo termine, anche dopo la fine della pandemia, ammesso che possa finire… Quando la coscienza si addormenta, quando ci si abitua a risolvere senza troppa fatica questioni che invece sono complesse, quando ci si scontra tra di noi non con argomentazioni ma con scelte assunte “per sentito dire” o per “parte presa”, i danni sono destinati a ripercuotersi a lungo, perché simili atteggiamenti continueranno anche in altri luoghi della vita sociale, indebolendone le motivazioni.

Nel suo famoso libro “Il potere” del 1951, Romano Guardini aveva messo in luce il pericolo che il potere fosse separato dalla responsabilità: “La progressiva statalizzazione dei fatti sociali, economici, tecnici – e noi potremmo aggiungere, sanitari – e insieme le teorie materialistiche che concepiscono la storia come un processo necessario significano il tentativo di abolire il carattere della responsabilità accettata, di scindere il potere dalla persona” [Il Potere, 1951, Morcelliana, Brescia 1993, p. 121].

Guardini, nella stessa opera, mette in guardia da un pericolo che anche oggi stiamo vivendo, ossia quello del potere “anonimo”: “Può anche avvenire che dietro di esso – ossia del potere – non ci sia alcuna volontà a cui ci si possa rivolgere, nessuna persona che risponda, ma solo una organizzazione anonima” [Ivi, p. 122], e sembra che l’azione passi attraverso le persone come semplici anelli di una catena.

Queste note sulla coscienza hanno un enorme impatto su un’altra fondamentale dimensione della ripartenza, che qui non ho il tempo di approfondire: l’educazione e la scuola hanno subito un grande vulnus in questo periodo e non è da escludere che la ripartenza avvenga anche con importanti modifiche sul fare educazione: esse potranno andare sul sentiero di una ulteriore centralizzazione e pianificazione, oppure di una maggiore assunzione di responsabilità educativa delle famiglie e della società civile.

Ripartire dalla ragione

Le osservazioni fatte sulla coscienza ci dicono che la ripartenza dovrà prevedere che la coscienza si riappropri delle proprie ragioni, che rivendichi i propri metodi e contenuti di ragione, che riscopra la ragione in tutta la sua pienezza.

Ora, riscoprire la ragione in tutta la sua pienezza, vuol dire ritornare alla sua struttura analogica, sapere che essa ha diversi piani e non confonderli tra loro, applicarli tutti in modo sinergico ma ognuno al suo posto. Durante la pandemia spesso questo non si è verificato.

Guardiamo per esempio il ruolo svolto dalla scienza e dagli esperti, facciamolo – come ripeto – senza prendere parte per l’uno o per l’altro fronte in campo. Risulterà abbastanza facilmente che la ragione scientifica non è stata utilizzata per quello che è, ossia nei suoi successi e nei suoi limiti. In certi casi la scienza è stata esaltata, andando ben oltre la saggia umiltà di molti scienziati ben consapevoli del suo carattere ipotetico, il che comporta che le conclusioni da essa stabilite e le indicazioni da essa fornite siano relative e mai assolute.

In altri casi è stata svilita e accusata di complicità col potere politico, il quale del resto – occorre riconoscerlo – l’ha utilizzata altrettanto spesso per i propri scopi, nascondendosi dietro l’espressione “lo dice la scienza”. Ma cosa dica veramente la scienza è rimasto nel complesso piuttosto oscuro. Nonostante questo, essa ha influito molto sulle decisioni personali e il giudizio scientifico per molte persone è diventato immediatamente giudizio etico.

Il piano empirico della raccolta dei dati, quello scientifico teso ad informare sui contenuti scientifici delle scelte in campo, il piano etico della valutazione morale in vista del bene sia personale che interpersonale, il livello politico teso a considerare il tutto della comunità politica per agire in vista del bene comune, senza riduzionismi a logiche di parte, siano esse quelle delle industrie farmaceutiche o quelle degli imprenditori o quelle dei sindacati eccetera …  sono piani distinti tra loro e nello stesso tempo collegati.

È sempre la ragione ad operare in essi, ma per via analogica. La ripartenza dovrà riacquistare l’attenzione per queste distinzioni dii ambiti e nello stesso tempo per queste collaborazioni, in modo che tutti facciano la propria parte e, nell’esercizio delle ragioni particolari, sia la ragione in quanto tale ad avere la meglio sulla paura, che è sempre una cattiva consigliera e facile strumento di controllo, sulla fiducia improvvisata e non motivata, sulla fretta, o sulla necessità.

Ricominciare dalla Fede

Tocco infine il tema della fede in ordine alla ripartenza. A mio modo di vedere, la fede – parlo qui della fede cattolica e non di una fede religiosa generica – ha il compito di sostenere, fortificare, aiutare tutto quello che ho finora detto: la coscienza, l’educazione, l’uso corretto della ragione nei suoi diversi livelli, la politica del vero bene comune. Essendo la Chiesa la “Sposa del Logos” non può tollerare illogicità, assurdità, contraddizioni, confusione di piani, arroganze ideologiche e l’azione di forze “anonime”.

Tutto questo, però, lo deve fare senza mai ridurre il problema a quegli stessi livelli che intende aiutare ed evitando di piegare se stessa a quei livelli. Se lo facesse rinuncerebbe al suo compito di “salvarli” anche in ordine ai loro fini naturali.

La fede vede tutto nell’ottica della perdizione e della salvezza, valuta anche le disgrazie nella luce della provvidenza divina, propone la fede in Dio onnipotente che, normalmente opera tramite le cause seconde ma può intervenire – nonostante le perplessità a questo proposito di tanta teologia contemporanea – anche rompendo, nel miracolo, la successione della causalità naturale, legge gli eventi della storia tramite una teologia della storia e invita sempre gli uomini alla conversione e al pentimento.

La Chiesa non confonde mai la salute, nel senso sanitario del termine, con la salvezza.

La Chiesa non aiuterà la comunità a vincere la sfida sulla “salute” diventando una agenzia “sanitaria” ma proponendo la “salvezza”, che dall’alto della vita di grazia scende anche in basso a fecondare la vita sociale. Ora – e con queste parole termino il mio intervento – c’è uno strumento particolarmente adeguato a questo scopo: la Dottrina sociale della Chiesa, strumento indispensabile per la “ripresa”. »                         

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