Davide Rossi (Università degli Studi di Trieste) Il Trattato di Osimo, sottoscritto il 10 novembre 1975, sancì lo stato (di fatto) di separazione territoriale creatasi nel confine orientale prima col Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 – cui seguì la parziale, zoppicante attuazione del Territorio Libero di Trieste (T.L.T.) e l’infelice spartizione dell’Istria e del Quarnaro – e, successivamente, col Memorandum di Londra del 1954, rendendo definitive le frontiere fra l’Italia e l’allora Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.
Già all’indomani della notizia della sua firma si accese un vivace dibattito generato dalle diverse, e quanto mai distanti, opinioni di chi lo considerò frutto della realpolitik. Altri videro nel Trattato l’indiscutibile dimostrazione del ruolo ancillare dell’Italia, accusata di avere oramai da tempo rinunciato alla difesa dei propri interessi nazionali in nome del mantenimento delle relazioni internazionali con le potenze occidentali. Infine, ci fu chi, semplicemente, ritenne questa vicenda l’ultimo dei tradimenti perpetrati dalla Repubblica in danno dei propri cittadini.
Ricordare oggi gli eventi di Osimo potrebbe apparire quasi un esercizio di stile, uno sforzo apparentemente futile ove non si superasse il mero dato storico del loro essere accadimenti relegati in un tempo distante da noi, dalla nostra quotidianità e, persino, da una geopolitica ormai priva dei suoi simboli distintivi (anzitutto il Muro di Berlino e la cortina di ferro) e permeata da una Unione Europea sempre più aperta ai Balcani. Un accordo che, con tutta probabilità, ha inciso in misura relativa sul piano giuridico – avendo confermato una condizione di fatto ormai consolidata dagli anni Cinquanta – e che, tuttavia, si è rivelato assai stimolante per le molte suggestioni politiche sollecitate e per le divergenti ricostruzioni giornalistiche, prima ancora che storiografiche, dallo stesso generate. Sono passati quasi cinquant’anni da quel freddo giorno di novembre del 1975 nel quale a Osimo, cittadina poco conosciuta in provincia di Ancona, in una villa privata e nel timore di scontri e rappresaglie, si consumava la fatidica firma; cinque decenni appaiono un tempo sufficientemente esteso per cercare di portare – godendo del distacco emotivo necessario a superare anche i giudizi espressi sull’onda della delusione delle parti direttamente coinvolte – nuova luce in una vicenda che, evidentemente, mostra ancora oggi considerevoli zone d’ombra.
Anche all’interno dell’associazionismo giuliano-dalmata la frattura psicologica fu forte e lasciò ferite ancora oggi non completamente sanate: molti esponenti di quel mondo furono incolpati di scarsa vigilanza, se non addirittura di collusione e tradimento come nel caso del senatore Paolo Barbi – Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – che, pur essendo stato tra i pochi democristiani a votare contro la ratifica, fu tacciato di complicità per scelte interne del proprio partito. Ricordare la firma del Trattato di Osimo significa irrimediabilmente occuparsi della “questione di Trieste” e di quel confine orientale, purtroppo, troppo spesso così ai margini dagli interessi storiografici e, più in generale, dalla cultura nazionale. Un confine mobile che ha subito modificazioni e spostamenti continui, in speciale nel Novecento. A partire dal primo conflitto mondiale, per passare dall’Impresa fiumana, quindi la Seconda Guerra Mondiale.
Dopo l’8 settembre 1943, nel contesto di guerra civile che era andato ad aggiungersi al simultaneo conflitto mondiale, la Venezia Giulia sembrò diventare più terra di conquista che territorio nazionale. Per le popolazioni italiane dell’Istria, del Goriziano e della Dalmazia, le vicende di quei giorni segnarono il principio di una serie di eliminazioni dirette contro civili, esponenti dell’autorità pubblica, rappresentanti del regime, oppositori politici e notabili locali. Si calcola che in questa prima ventata di condanne a morte emesse per iniziativa del potere partigiano inquadrato da dirigenti d’oltreconfine contro l’elemento italiano perirono circa 600 individui: precipitati talvolta ancora in vita nelle cosiddette foibe (inghiottitoi e pozzi naturali tipici della zona carsica), in mare, oppure passati direttamente per le armi in modo sommario e irregolare. Successivamente, nel giugno ’45, altri 8000 italiani trovarono la morte con le stesse terribili modalità.
L’Istria e la Dalmazia risvegliavano però anche l’interesse degli anglo-americani, poiché andavano configurandosi come luogo strategico per manovrare contro l’ormai progressiva e intensificata presenza dell’Asse nell’area balcanica. Su tale assunto gli Alleati offrirono pertanto un sostegno destinato ad accrescersi in modo vigoroso a Josip Broz Tito. Si schiudeva così al confine orientale un ulteriore fronte di lotta: fra opposte tendenze nazionali, differenti ideologie e ambigui passaggi di campo. Gli jugoslavi non nascondevano in alcun modo la volontà di annettere gran parte del Friuli orientale e poi la stessa Trieste.
Secondo quanto espresso da Palmiro Togliatti, la parola d’ordine diventava allora per i comunisti italiani del fronte orientale: «favorire in tutti i modi l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito». Tra i problemi che gli Alleati si trovarono perciò ad affrontare nell’ottobre del 1944 c’era anche quello causato dall’evidente rottura con Stalin dell’accordo sulla Jugoslavia. Lo scopo degli anglo-americani era dunque ottenere un’influenza nell’area che compensasse quella sovietica, ma soprattutto che vanificasse lo sforzo espansionista, tanto politico quanto nazionalista, posto in essere da Tito in quei giorni. Diveniva palesemente chiaro il paventato disegno di Tito di seguire la politica del fait accompli con intenzioni annessioniste tramite il tentativo di impadronirsi del più ampio numero di territori italiani e austriaci. Non soltanto a Trieste, ma nella complessiva area occupata dall’esercito di liberazione jugoslavo la popolazione italiana veniva intanto fatta segno di fermi, deportazioni, esecuzioni e soprattutto sparizioni. Nel clima di terrore instauratosi nella regione, si consumavano vendette personali, intimidazioni, trasferimenti forzati nei campi di prigionia, infoibamenti, annegamenti e uccisioni.
Il 2 giugno 1945 Churchill ritenne giunto il momento di inviare a Tito un ultimatum nel quale si richiedeva l’immediato ritiro delle truppe jugoslave da Trieste e dalla Venezia Giulia occidentale. Il primo ministro britannico, turbato dalle violenze perpetrate dai partigiani jugoslavi, era pronto all’azione allo scadere dell’ingiunzione, ma il presidente statunitense Harry S. Truman lo trattenne, timoroso di doversi impegnare su un nuovo fronte nel mentre già gli americani combattevano nel Pacifico. Il 9 giugno del 1945 il maresciallo Tito firmava intanto a Belgrado l’accordo relativo alla demarcazione delle differenti, rispettive aree di occupazione.
Nel frattempo Alcide De Gasperi non raccolse l’invito statunitense a indire un plebiscito in quell’area dell’Istria posta fra le linee confinarie avanzate nel frattempo dagli Alleati. Nell’ambito della Conferenza che avrebbe condotto al Trattato di Pace venne stabilita la costituzione di un Territorio Libero (Zona A di 222,5 km² e circa 310.000 abitanti) che partiva da San Giovanni di Duino, comprendeva la città di Trieste e terminava presso Muggia. L’amministrazione del Territorio Libero (T.L.T.) sarebbe rimasta al Governo Militare Alleato. Venne poi disposta per la parte nord-occidentale dell’Istria (Zona B di 515,5 km² e circa 65.000 abitanti) una gestione dipendente dall’esercito jugoslavo. Il Trattato di pace veniva infine siglato a Parigi il 10 febbraio 1947 ed entrava ufficialmente in vigore il 15 settembre successivo.
L’Assemblea costituente della Repubblica italiana autorizzava il Governo il 31 luglio a ratificare il Trattato stesso, con un disegno di legge dal lungo e faticoso iter. Va significativamente osservato come la medesima Assemblea risultasse orbata, per questa come per altre posizioni politiche, dalla presenza del xii Collegio della Venezia Giulia (Trieste, Venezia Giulia e Zara). In considerazione della sconfessione della Jugoslavia da parte del Cominform, la soluzione alleata del T.L.T. si mostrava ormai periferica rispetto alle necessità dell’equilibrio post-bellico. La situazione si sbloccava con il protocollo d’intesa sottoscritto a Londra il 5 ottobre 1954 fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Repubblica di Jugoslavia. Nel documento si stabiliva che la Zona A sarebbe passata all’amministrazione civile italiana (con alcune correzioni territoriali a favore della Jugoslavia nel comune di Muggia) e la Zona B a quella jugoslava.
Nel contesto internazionale di distensione avviatosi alla fine degli anni Sessanta, pure le relazioni diplomatiche fra Italia e Jugoslavia subirono un aumento di intensità, che portarono per l’appunto alla stipula di Osimo. Meritano un discorso a parte i casi relativi alla restituzione o all’indennizzo dei patrimoni espropriati agli italiani dopo il Trattato di Parigi da parte della Jugoslavia e alla tutela delle reciproche minoranze sul rispettivo territorio. Alcuni anni prima dell’implosione della stessa Federazione jugoslava, infatti, Italia e Jugoslavia addivenivano (nel 1983) all’importante Trattato di Roma: con esso la Jugoslavia si impegnava allora a risarcire l’Italia per un totale di 110 milioni di dollari a fare data dal 1° gennaio 1990. Con la disgregazione della stessa Federazione, di lì a poco succedevano in veste di debitori le neonate repubbliche di Croazia e Slovenia. Da allora un nuovo stallo, che ha il sapore dell’ennesima vicenda inconclusa della “questione di Trieste”.