In “Sono scesi i lupi dai monti” (Mursia, pp. 204, € 17,00) l’Autore è riuscito nella difficile impresa di raccontare con delicata pacatezza una delle vicende più tragiche della recee storia italiana: l’orribile morte di 15/20.000 istriani e giuliano-dalmati, molti dei quali gettati ancora vivi nelle foibe.
Sono pagine, quelle di Piero Tarticchio (Gallesano – Pola 1936), dense di ricordi personali carichi di quelle umanità e pietà che solo i saggi sanno esprimere.
A mo’ di diario l’Autore narra la sua vita fin dall’infanzia segnata dalle atrocità della guerra e dal massacro di sette famigliari, a cominciare dal padre, ad opera dei comunisti titini.
Il reato dei Tarticchio, come quello di migliaia di altre famiglie infoibate, era l’italianità. Il segnale più chiaro che gli italiani non dovessero più rimanere nelle loro case fu l’attentato, ordito dalla polizia segreta iugoslava il 18 Agosto 1946 sulla spiaggia di Vergarolla, dove perirono 110 persone a seguito dell’esplosione di residuati bellici.
Un fatto, un episodio che convinse gran parte di quei 350.000 istriani, giuliani e dalmati a lasciare definitivamente i luoghi natii e a dare corso a quell’esodo che li avrebbe spinti a trovare rifugio in altre parti del mondo.
«Negli anni che seguirono i miei sogni furono spesso turbati da incubi orribili», scrive Tarticchio ricordando Vergarolla. «Mi sembrava di navigare in un mare in tempesta Rosso di sangue e non riuscivo a mantenere la rotta. Per quanto lottassi con tutte le mie forze contro gli elementi, il vento mi spingeva contro una scogliera.
Sentivo distintamente il mugghiare dei marosi che si infrangevano sugli scogli, tuttavia non riuscivo a vederli. Sembrava che il turbinio della bufera avesse fuso il cielo con il mare in un unico elemento.
Avevo la sensazione che la mia barca si dirigesse verso un enorme vuoto nero… dentro il nulla assoluto. Poi avvertivo lo schianto… un frastuono terribile… e il mare si chiudeva sopra di me… Non riuscivo a respirare e mi svegliavo madido di sudore».
Ci sono passi del libro in cui la prosa lascia spazio alla poesia e la narrazione, sempre reale perché attinente a fatti accaduti, si fa struggente come quando Tarticchio rievoca un passaggio degli anni dell’infanzia.
«Le pagine di un atlante geografico diventavano piattaforme dalle quali decollavano i sogni di un fanciullo cresciuto fra bollettini di guerra e proclamazioni di vittorie», dice.
«Come per tanti bambini degli anni 40, le battaglie erano un divertimento tutto da vivere e da inventare. I giocattoli quelli veri erano un privilegio per pochi. I miei erano senza corpo e senza tempo, frutto della mia immaginazione. Svaghi fatti di purissimo pensiero, un materiale etereo che non costava nulla e che nessuno avrebbe potuto portarmi via».
Il libro, finalista alla 55^ edizione del Premio Acqui Storia, ha un titolo allegorico che richiama l’indole del lupo associata al male, alla cattiveria, per riecheggiare quella dell’uomo malvagio che, in talune circostanze (come quelle accadute al confine orientale italiano dal 1943 al 1956), ha mostrato una ferocia satanica.
Con Mursia Piero Tarticchio, che ha lavorato 42 anni nel mondo della comunicazione pubblicitaria, ha pubblicato anche “La capra vicina al cielo” (2015) e “Maria Peschle e il suo giardino di vetro” (2019).