In Italia il tema delle autonomie regionali è da sempre occasione di scontro politico: basti pensare che l’attuazione delle regioni, previste dalla costituzione del 1948, divenne operativa solo nel 1970 proprio a causa di una persistente inclinazione statalista di tutte le forse politiche di allora. L’istituzione delle regioni ha dato vita a un movimento che, anche se non in modo uniforme, ha messo in rilievo le potenzialità ( e i limiti) dei diversi territori.
Se pensiamo alla Lombardia, il sistema regionale ha avuto, tra gli altri, anche il merito di alimentare la nascita di un ceto politico capace di programmazione e visione.
Quello che non è sempre chiaro nel dibattito in corso e soprattutto a molta parte della popolazione è che la regione non è un comune un po’ più grande, ma un ente di governo capace di promuovere leggi che regolano – nel rispetto della costituzione nazionale – la vita di un territorio.
In questi giorni, con il passaggio in consiglio dei ministri, è ripreso il percorso della cosiddetta autonomia differenziata. Si tratta della possibilità, prevista dalla costituzione, che alle regioni siano attribuiti poteri esclusivi in determinate materie.
Subito le obiezioni si sono manifestate: la stessa presidente Meloni ha affermato che non ci può essere un’Italia di serie A e una di serie B. E’ un modo popolare per affermare che non ci possono essere differenze tra i territori. Ma è questo il problema vero?
In realtà è la stessa costituzione che ha creato alcune realtà di serie A lasciando il resto dell’Italia in serie B. Mi riferisco ovviamente alla nascita delle regioni autonome (ricordiamole: le due isole maggiori Sicilia e Sardegna più Valle d’Aosta, Friuli e Trentino Alto Adige) che godono di privilegi e risorse ben maggiori rispetto alle altre.
Il tema vero è però un altro: com’è gestita questa autonomia? Se il Trentino Alto Adige può essere indicato come un modello di buon governo territoriale, quale uso fa la Sicilia di un’autonomia molto vicina ai poteri di uno stato indipendente?
Autonomia deve essere necessariamente declinata con responsabilità. L’attuale organizzazione dello Stato fa sì che non ci sia differenza tra chi amministra bene le risorse pubbliche (come la Lombardia, ma non solo) e chi aspetta lo Stato per ripianare i deficit continui. Il cosiddetto federalismo fiscale cui si lavorò invano nelle precedenti legislature, cercava anche di collegare la responsabilità degli amministratori all’utilizzo delle risorse attribuite.
Il tema è tale che esigerebbe una profonda discussione nel paese: personalmente ritengo difficile arrivare a un buon disegno di legge sul tema senza affrontare una riforma complessiva di alcune parti della costituzione in modo il più possibile condiviso.
C’è infatti nelle forze politiche oggi in parlamento un sentimento statalista e centralista che caratterizza non solo l’intera sinistra (la quale considera lo stato una sua proprietà da governare o condizionare da Roma) ma anche uomini della maggioranza. E ci sono temi sensibili sui quali l’affronto superficiale non porta a risposte adeguate.
I temi su cui c’è particolare allarmismo sono quelli che riguardano la sanità e la scuola. Per quest’ultima si teme che il passaggio alle regioni vada a scapito dell’unità nazionale; tuttavia se si guarda alla realtà della scuola e non alle ideologie o all’eccesiva sindacalizzazione che impedisce da sempre una reale riforma in positivo, i timori possono cadere.
Da sempre le regioni hanno piena competenza nella formazione professionale: la Lombardia ne ha ricavato un sistema di alta qualità, arricchendo i settori d’intervento, allungando i percorsi, facilitando il passaggio tra i diversi sistemi. Fermo restando che i principi fondamentali restano in capo allo stato non c’è dubbio che una regionalizzazione ben fatta andrebbe a vantaggio di tutto il sistema scolastico.
Analoghe considerazioni valgono per la sanità. È un’illusione che la ri-centralizzazione del sistema possa migliorare le prestazioni del servizio sanitario nazionale, né servono le polemiche sulle temute privatizzazioni. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si sono date sistemi sanitari di eccellenza che funzionano con modelli organizzativi diversi che tengono conto quindi delle diverse realtà regionali.
C’è in realtà un vero grande problema nell’attuazione dell’autonomia differenziata ed è che per svolgere adeguatamente nuovi e importanti compiti occorre che le regioni abbiano una dimensione adeguata: servirebbe un sistema con non più di sette/dieci regioni.
Ma qui c’è il vero blocco: quali forze politiche sono in grado di mettere in discussione le attuali circoscrizioni regionali che comportano ruoli e posti per un ceto politico che, in determinate zone d’Italia vive proprio di questo?
Le prossime elezioni regionali in Lombardia consentono la scelta tra un regionalismo rafforzato e il ritorno al centralismo come affermato pubblicamente dal candidato del Pd ma anche sostenuto dal partito di Renzi e Calenda: La riconferma del presidente Fontana e della coalizione che presiede può consentire la continuazione di un buon governo che da anni riesce a rappresentare meglio di altri la multiforme varietà della regione.