Il cambiamento climatico e la scarsità di risorse influenzeranno sempre più gli equilibri di potere in diverse aree del mondo. La competizione per il possesso e il controllo di acqua e terre continua a generare tensioni “intra e inter“ nazionali.
Le future scelte strategiche e logistiche di molte operazioni militari dovranno tenere conto di questi scenari. La NATO Defence College Foundation ha analizzato questi aspetti strategici nella recente conferenza organizzata a Roma lo scorso mese. A questi argomenti si aggiunge quello energetico. E’ quindi opportuno un approfondimento dal punto di osservazione dell’Alleanza Atlantica nella considerazione che il nostro paese e i suoi alleati della NATO, come tutti i principali paesi consumatori – compresi le nazioni emergenti – dovranno, nel prossimo futuro, risolvere un problema energetico complesso. Il comparto della Difesa non può essere avulso da questi problemi, perché potrebbe essere, di fatto, il mezzo, qualora fallisse la diplomazia, per affrontare le minacce future per l’approvvigionamento dell’energia agli italiani.
La NATO come “Alleanza Difensiva” non può trascurare l’importanza per la sicurezza globale ed equilibri internazionali di energia e questioni ambientali, per due ragioni principali. La prima sta nel fatto che l’energia a basso costo resta essenziale per il corretto funzionamento economico, sociale e politico delle società moderne. Il fabbisogno energetico è in costante crescita a causa della volontà di molti stati nel mondo di raggiungere livelli di sviluppo paragonabili a quelli dei paesi più sviluppati. In tale quadro, nonostante la pandemia in atto, la probabile differenza tra domanda e offerta energetica globale, salvo un imprevisto sconvolgimento tecnologico o sociale, dovrebbe contribuire a mantenere alti i prezzi dell’energia nei prossimi anni.
Questo fenomeno di scarsità potrebbe avere conseguenze strategiche e militari a livello globale. Definire una strategia su questi temi, per la NATO e i paesi legati all’Alleanza Atlantica, come l’Australia o il Giappone, potrebbe consentire loro di ridurre le tensioni in ambito geopolitico. Tutto ciò diversificando le loro fonti di approvvigionamento e le loro tecnologie al fine di preservare, per le loro economie, stabilità sociale e sicurezza. Quanto precede tenendo conto che il mix energetico globale rimarrà in gran parte basato sui combustibili fossili (carbone, petrolio e gas).
Questi dovrebbero comunque rappresentare il 75% del fabbisogno energetico mondiale fino al 2035. Tuttavia, i combustibili fossili producono gas a effetto serra ed è imperativo limitare queste emissioni per ridurre l’impatto del futuro, e purtroppo atteso, cambiamento climatico sulle attività umane. Senza una politica proattiva, questa insicurezza ambientale si trasformerà alla fine in insicurezza strategica, a causa delle sue conseguenze sulle condizioni di vita di milioni di persone e sulla disponibilità di risorse come l’acqua potabile o i terreni coltivabili. In un tale quadro, è necessario agire in termini di sicurezza dei nostri approvvigionamenti energetici e pronunciarsi con maggiore chiarezza sui mezzi necessari per attuare un mix energetico destinato a fronteggiare la minaccia sempre più concreta del riscaldamento globale.
L’importante posta in gioco finanziaria legata a queste questioni di limitazione dei gas serra danno un’idea della portata di questa sfida, dei costi che rappresenta per le nostre società e dei problemi di accettabilità sociale che implica questo sforzo. Il secondo motivo sta nel fatto che le tensioni per il controllo delle risorse energetiche e per il controllo delle conseguenze legate al degrado ambientale rischiano di rimanere su livelli elevati, data l’importanza delle risorse fossili, tuttora essenziali. Il fabbisogno energetico globale per i prossimi trent’anni e la loro concentrazione in regioni tradizionalmente instabili, come il Medio Oriente, o poco favorevoli agli interessi strategici dei paesi NATO e dei suoi alleati, come la Russia, rimane un problema da risolvere da subito.
La mancanza di una consistente alternativa alle fonti energetiche esistenti, almeno su un orizzonte temporale noto, obbligherebbe le democrazie occidentali a porre attenzione a questo fenomeno nelle loro considerazioni di sicurezza e a rimanere vigili sugli sviluppi attuali e futuro delle regioni ricche di materie prime. Per il momento, nonostante la, per fortuna ora limitata e contenuta anche con neutralizzazione di pericolosi elementi, importanza assunta geopoliticamente dall’Iran, la questione della stabilità del Medio Oriente, parzialmente risolta anche dalla brillante iniziativa del Presidente Trump in sede di “Accordi di Abramo”, è solo una questione di sicurezza, tra le tante, per i paesi della NATO. Gli Stati membri dell’Alleanza dovrebbero teoricamente intraprendere un percorso di riduzione della loro dipendenza dal “fossile” diversificando la loro offerta tecnologica e industriale. Questa politica dovrebbe essere incentrata intorno alla produzione di energia da fonti primarie interne, ad esempio sostenendo, per i paesi che possono, il rilancio del nucleare sicuro civile; lo sviluppo ragionato di energie rinnovabili su larga scala – eolica o solare; una maggiore diversificazione dell’offerta geografica dei paesi NATO, mediante la sottoscrizione di accordi con il maggior numero possibile di paesi fornitori di energia nel mondo per non dipendere da un unico partner, in particolare nel settore del gas e anche dell’uranio.
A inizio 2021 permane, nei settori dell’ambiente e dell’energia più che in qualsiasi altro, un enorme divario tra l’attuale capacità di analizzare le cause delle minacce future e quella di tener conto dei loro effetti. Per questioni con implicazioni spesso globali, la consapevolezza e le risposte politiche sono talvolta troppo tardive e spesso all’interno di un quadro esclusivamente nazionale.
Quindi, mentre se è probabile che se le democrazie sviluppate dei membri della NATO riusciranno alla fine a ”trovare la quadra” dei loro problemi ambientali, i paesi emergenti, e in particolare alcuni stati come l’India, la Cina e l’Indonesia, stanno incontrando serie difficoltà nel conciliare crescita economica e impegno ambientale. Queste difficoltà sono destinate a durare, vista la pressione demografica nell’Asia meridionale, sia per i bisogni legati al loro sviluppo economico sia per la rapida urbanizzazione di tutti i paesi della regione.
Per far fronte a queste sfide, dal punto di vista industriale e tecnologico, i paesi membri della NATO stanno intraprendendo un’azione mirata per la diversificazione energetica, e delle nostre fonti di approvvigionamento. Su tale aspetto riveste importanza la volontà di alcuni paesi per la promozione del nucleare civile che dovrebbe comunque rispettare due principali vincoli da un punto di vista geopolitico: andare verso tecnologie e processi di non proliferazione e soddisfare il fabbisogno di elettricità e acqua di molti paesi in via di sviluppo, garantendo la loro stabilità politica e l’assenza di conflitti armati. In effetti, le risorse idriche non sono uniformi sulla superficie del globo. Nove paesi concentrano il 60% delle risorse idriche rinnovabili.
Tra questi nove paesi ci sono Stati Uniti, Canada, Brasile e Russia. Se aggiungiamo gli Stati membri dell’Unione Europea, questi paesi condividono circa i due terzi delle risorse rinnovabili del pianeta. Tuttavia, non sono queste le aree geografiche, dove la crescita della popolazione e le esigenze economiche hanno impatti quantitativi e qualitativi sulla scarsità d’acqua regionale (prelievi domestici, aumento della produzione alimentare e delle aree irrigate, usi industriali).
Altro aspetto da tenere presente è la crescente dipendenza energetica esterna dei paesi europei della NATO, ad eccezione della Norvegia, che rimane quindi una delle principali fonti di preoccupazione per le loro autorità politiche. Questo, in particolare, per il petrolio, ma anche e sempre più per gas naturale, la cui importanza globale continua a crescere. Consapevole della valenza e della persistenza dei rischi legati agli idrocarburi, la NATO si sta concentrando sulla valutazione dei rischi e delle minacce alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico che rimangono una priorità per l’Alleanza.
La NATO, a questo punto, dovrebbe soprattutto iniziare a pensare di dover assicurare fisicamente, anche attraverso le risorse militari dei suoi stati membri, la protezione delle rotte marittime, degli oleodotti, delle infrastrutture critiche (porti, raffinerie, depositi di carburante) e delle società che consentono (per l’Italia l’ENI) di garantire un approvvigionamento sicuro e regolare ai propri paesi membri. Sarebbe quindi necessario sia escludere un conflitto in una grande regione produttiva, ad esempio in Medio Oriente, che sconvolgerebbe gli equilibri dei mercati energetici in un mondo ancora colpito dalla crisi economica post 2008 e dalla pandemia, sia l’emergere di una vera e propria guerra fredda, che potrebbe diventare più calda, con gli Stati Uniti ei suoi alleati della NATO da un lato, e alcuni paesi emergenti, in particolare la Cina, dall’altro.
In conclusione, atteso che la terra avrà, secondo alcune stime, otto miliardi di abitanti entro il 2025 e che la continua crescita della popolazione fa si che sia necessario ottenere energia a basso costo per produrre acqua, ad esempio mediante sistemi di desalinizzazione, il numero crescente di situazioni di scarsità, conseguenza di un’intensificazione della domanda e della diminuzione della disponibilità d’acqua dolce, potrebbe purtroppo portare a “guerre per l’acqua”.
Ci manca solo questo per non vedere un futuro sereno… (Generale Giuseppe Morabito – Membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation)
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