«L’avvenire non si costruisce col diritto della forza, né con lo spirito della conquista, ma con la pazienza del metodo democratico, con lo spirito costruttivo delle intese, nel rispetto della libertà».
Ho incrociato queste parole mentre mi preparavo per una conversazione sull’Europa con i ragazzi del liceo Leopardi: sono parole che si perdono nel tempo, fanno, infatti, parte del discorso che il presidente De Gasperi tiene ad Aquisgrana nel 1952 in occasione della consegna del premio europeo intitolato a Carlo Magno.
Tutto il discorso è di altissimo livello e mi è diventato immediato paragonare quella lontana manifestazione al recente incontro del G7 la cui logica mi è apparsa del tutto lontana, se non opposta, a quella di Aquisgrana.
Non va dimenticato peraltro che il discorso di De Gasperi è tutt’altro che un’affermazione di puri principi: in quegli anni è in corso la costruzione della Ceca (Comunità europea carbone e acciaio), la prima bozza di comunità economica che è alla vera origine della UE. Lo ricorda lo stesso presidente: «Questa volta stiamo, non solo affermando dei principi e firmando dei trattati, ma creiamo degli organi funzionali destinati ad inculcare l’idea [di una mentalità europea] e ad assicurare il suo sviluppo».
Dal G7 è emersa piuttosto la scelta di costruire «l’avvenire col diritto della forza» visto che nessuna voce si alza più in quelle stanze per parlare di iniziative volte a scongiurare l’avvitarsi sempre più pericoloso della guerra in Ucraina. Senza dimenticare la presunzione di un gruppo di Paesi, potentissimi ancora sul piano finanziario e, almeno alcuni, anche su quello militare, ma che rappresentano settecento milioni di persone in un mondo popolato da quasi otto miliardi e in cui un paio di paesi (India e Cina) da soli sono più popolosi dell’insieme dei sette.
Quello che colpisce di più, tuttavia, è la mancanza, o almeno la non evidenziazione, del criterio con cui costruire l’avvenire. Abbiamo già visto e scritto in passato di quanto sia sempre meno solido il riconoscimento del primato dell’Occidente su scala mondiale, sempre di più sono i mondi che cercano di svincolarsi dall’orbita occidentale a egemonia statunitense cercando altri “ombrelli” protettivi nella Cina o nella organizzazione di inedite alleanze.
Se i valori dell’Occidente fossero ancora quelli che richiamava De Gasperi (rinuncia alla forza, metodo democratico, ricerca di intese, difesa della libertà) si dovrebbe sostenere in ogni modo questo percorso. Ma al G7 è questo che interessa? È legittimo chiederselo soprattutto dopo l’improvvido esordio del colloquio tra Trudeau e Giorgia Meloni con la manifesta preoccupazione del leader canadese per i cosiddetti diritti lgbtquia+ che sarebbero negati nel nostro Paese.
Sembra che siano solo questi due i legami che tengono assieme il G7 aldilà degli aspetti economici per cui è nato: la guerra a oltranza per annichilire la Russia e l’introduzione diffusa dei cosiddetti “nuovi diritti” nella legislazione dei Paesi aderenti (percorso peraltro già iniziato anche all’interno della istituzioni europee). C’è una differenza non solo storica tra i due momenti che stiamo confrontando, ma soprattutto culturale.
Dopo la guerra, gli uomini che in un’Europa in gran parte distrutta mettono mano alla ricostruzione, scelgono di schierarsi per la libertà e la democrazia lasciando il comunismo sovietico dietro gli accordi di Yalta, sono uomini impregnati di una cultura europea, cioè cristiana, che si è venuta formando nel corso dei secoli anche al caro prezzo di guerre di religione e di reciproche ingiustizie tra i popoli.
Non erano di certo tutti dei praticanti o impeccabili cattolici o protestanti, ovviamente. Ma certo impregnati di una visone del mondo largamente condivisa.
Da allora questa visione è diventata sempre più marginale (volumi sono stati scritti su scristianizzazione, secolarizzazione, post-cristianesimo…) e fa emergere la drammaticità di una domanda: il mondo può ancora continuare sullo slancio di due millenni di cristianesimo se l’alimentazione della sua cultura viene meno?
Qui non è in questione la vita della Chiesa che sarà viva fino alla fine dei tempi, ma della cosiddetta civiltà formata dal cristianesimo.
È una domanda che anima anche gli spiriti laici: ad esempio in un recente “pamphlet” il filosofo marxista Leszek Kolakowski si chiede «la nostra cultura potrà sopravvivere nell’oblio di Gesù?» E ancora «nelle classi colte o semi colte della nostra società è vergognoso essere cristiano…si ha l’impressione che nelle facoltà di Teologia l’ultima cosa di cui si sente parlare sia Dio: si parla dei simboli religiosi, della giustizia sociale, dell’impegno della dimensione storica».
Per il filosofo questo oblio ha conseguenze importanti sulla vita della società perché cancella il problema del male spostando Dio dal centro della realtà e mettendo al suo posto l’uomo con il suo desiderio e la sua autoaffermazione. Ma in questo modo, afferma ancora, «senza la possibilità di sentirci colpevoli, non siamo più capaci di distinguere tra il bene e il male. L’umanità che non sapesse fare questa distinzione si suiciderebbe».
Si possono condividere o meno affermazioni così drastiche, tuttavia uno sguardo a quanto succede nel nostro tempo con la cultura della cancellazione, la critica prevenuta del passato, l’incapacità di accettare l’altro che la pensa diversamente, la violenza verbale che rischia di tracimare in quella fisica, forse non sono del tutto fuori luogo.
In ogni caso, per tornare a De Gasperi e al suo ottimismo europeista, sarebbe molto importante studiare e far conoscer la realtà di un pensiero sociale e politico di matrice cristiana che ha costruito l’Europa, per contrastare la deriva qualunquista che sta distruggendo quella che i padri hanno pensato come “casa comune”.