Elon Musk, proprietario di Twitter, ha annunciato 3.700 licenziamenti; Mark Zuckerberg, proprietario di Meta (Facebook), 11.000 e Jeff Bezos, proprietario di Amazon, 10.000.
Ma come, non ci avevano detto che Big tech avrebbe creato milioni di posti di lavoro e comunque in numero sufficiente per equilibrare quelli che avrebbe fatto perderne a mano a mano che si fosse affermata?
I grandi gruppi bancari riducono il personale, l’industria automobilistica non ha più tute blu, le grandi aziende editoriali sono scomparse e persino le holding del comparto turistico, insieme alle compagnie di bandiera del trasporto aereo, sono ridotte al lumicino. Toh, scopriamo che l’elefantiasi è una malattia.
È stravagante il passaggio della lettera con cui Zuckerberg, annunciando i licenziamenti, invita comunque i propri dipendenti ad essere orgogliosi di appartenere ad un’azienda «leader nello sviluppo della tecnologia per il futuro delle connessioni sociali». Chissà che cosa avranno pensato i licenziati della fallimentare corsa al metaverso che sarebbe la causa – parola di Zuckerberg – della perdita del loro lavoro?
Solo in Italia il giro d’affari della pubblicità digitale ammonta a 4,42 miliardi di euro e “Milano Finanza” conferma che «quest’anno l’80% dell’investito complessivo online italiano è stato intercettato dai grandi player internazionali, come i motori di ricerca e i social network (era il 71% nel 2017)».
Il Big tech Usa ossia Amazon, Apple, Alphabet (cioè Google), Microsoft e Meta, hanno prodotto nel 2021 circa millequattrocento miliardi di dollari. «Una quota considerevole (pari al Pil del Brasile), in netta crescita rispetto al 2020, con un incremento del 27%: si parla di trecentomila miliardi di espansione», commenta “Il Sole 24Ore”.
I padroni di un settore che produce utili simili hanno il coraggio di buttare sulla strada 24.000 persone e l’impudenza di farsi chiamare filantropi.
Un dato è certo: la spasmodica ricerca di fare utili in tempi brevissimi è il frutto di un capitalismo arrembante ed è un atteggiamento che stride con i valori dell’autentica economia.
Nel “Quattordicesimo Rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo”, Gianfranco Battisti, professore di Geografia politica ed economica, scrive che «contrariamente a quanto si vuol far credere, le multinazionali sono sostanzialmente inefficienti».
Nel documentato articolo “Le logiche economiche del grande reset”, il Professore spiega come «i monopoli danneggiano l’economia distorcendo la concorrenza fra le imprese, aumentando il prezzo dei prodotti e crescendo sulla distruzione delle piccole e medie imprese. Non solo: registrando grossi utili, destinano grandi energie per sfuggire all’imposizione fiscale».
Nello studio di T. Torslov, L.Wier e G. Zucman, “I mancati profitti delle nazioni”, è messo in evidenza «come il 26 per cento dei profitti delle multinazionali verrebbe conservato nei paradisi fiscali. L’area maggiormente penalizzata sotto il profilo fiscale è l’Europa, che perderebbe circa il 20 per cento delle imposte sulle società».
Google e altri social network quante tasse versano agli erari dei Paesi europei in cui raccolgono miliardi di euro?
I guasti prodotti da troppe multinazionali non finiscono qui perché, come sottolinea sempre il professor Battisti, queste hanno poi il problema di mettere a profitto le ingenti risorse accumulate.
«Sono dunque continuamente alla ricerca di attività sulle quali mettere le mani», argomenta il Docente, «per trasformare quelli che sono capitali virtuali in beni economici reali. Non riuscendo ad aumentare i loro mercati, tendono ormai ad impadronirsi dei servizi pubblici, dai quali ricavare nuove rendite. Controllare i governi non è più sufficiente, l’imperativo è fagocitarli e sostituirli. Un disegno che è implicito nel Great Reset».